Una vita tranquilla, Rai Movie, ore 22,55.
Pensare che il regista è lo stesso del carino, troppo carino Lezioni di cioccolato. Invece stavolta Cupellini ha girato un noir sporco e duro, di stile europeizzante e poco italiano. Con un Servillo emigrato in Germania che vede andare in frantumi la sua vita perfetta perché il passato, si sa, ritorna e presenta sempre i suoi conti.
Ha ragione una mia amica quando dice: ci sarà un film italiano da vedere senza Toni Servillo? Che ormai s’è perso il conto di tanti che ne ha fatti negli ultimi anni, quasi che il nostro cinema fosse diventato Servillo-dipendente. Però va detto che lui raramente delude, e anche questo Una vita tranquilla vale la visione. Stavolta TS è Rosario, emigrato in terra di Germania dove ha aperto un ristorante-albergo, in uno chalettone nel mezzo di una cupa foresta, che ha battezzato non troppo fantasiosamente Da Rosario (il marketing e il naming di ristoranti e pizzerie italiane da quelle parti evidentemente non hanno fatto molti passi in avanti dagli anni Sessanta), e la grande insegna luminescente in quel buio da tetra fiaba nordica stride come un’incongrua installazione pop. Tutto procede bene, una vita tranquilla quella di Toni-Rosario, che anche se ormai in età matura – ma tutte quelle rughe e pieghe sulla faccia non gli stanno male, anzi – ha un gran bella moglie più giovane di lui, tedesca tedeschissima, dunque bionda e solo un po’ segaligna. Anche un po’ piatta, ma si capisce che per il nostro émigré è una rivincita in stile anoressico-cool e chic sulle poppute mediterranee che hanno sicuramente popolato la sua giovinezza in terra campana. Bella e teutonica, la moglie di Rosario, dunque inattendibile, come lo è del resto anche la moglie germanica di Zingaretti-Montalbano cui questa molto assomiglia. Quando mai un emigrato italiano si poteva, si può conquistare una femmina di fascia alta del popolo nordico ospitante? Le leggi etniche e di casta che regolano i rapporti e gli amori e i matrimoni tra nord e sud, tra autoctoni e immigrati, tra classi alte e classi basse sono ferree, anche se tacite, e proibiscono e impediscono le misalliances. Le trasgressioni, quando ci sono, portano sempre con sè una cert’aria di maledettismo e melodramma, e vengono pagate a caro prezzo, cosa che qui non avviene (la nemesi per Rosario arriverà, ma non c’entrerà nulla con il suo matrimonio). Il regista Claudio Cupellini e gli sceneggiatori prima di inventarsi una moglie così poco credibile per il loro protagonista avrebbero potuto ripassare qualche film di Fassbinder, che di amori di tedesche e tedeschi con uomini e donne del sud (in tutte le loro combinazioni) se ne intendeva davvero, vedi La paura mangia l’anima, e mai avrebbe commesso un errore del genere. Cupellini avrebbe anche potuto utilmente ripassare, se non fosse introvabile, il leggendario Lovemaker – L’uomo per fare l’amore di Ugo Liberatore, 1969, ove la storia tra la teutonica Doris Kunstmann e lo stallone italiano Antonio Sabato portava solo guai.
Invece, niente mélo ma una vita tranquilla tra Rosario e la moglie made in Germany, con tanto di figlioletto, biondo anche lui e assai teutonico di nome Mathias, mica Nino o Pino, a sottolineare l’upgrading sociale avvenuto con successo. Poi però succede qualcosa. Rosario guarda dalla finestra e vede due ragazzi con l’aria da bulli. Noi spettatori sappiamo già che vengono dalle parti di Napoli e hanno qualcosa da fare lì in Germania, anche se non capiamo cosa. Rosario invece intuisce, li accoglie in albergo e mostra di conoscere molto bene uno dei due, Diego, il più introverso, il meno guascone.
Non sarà più tranquilla la vita di Rosario, quei due gliela incasineranno. Non è il caso di raccontare troppo per chi il film non l’avesse ancora visto. Si sappia almeno che i ragazzi venuti da Napoli si apprestano a commettere un omicidio su commissione, che Rosario vedrà finire in frantumi la sua esistenza così pazientemente ricostruita, perché lui ha un orribile passato alle spalle e naturalnente quei due sono arrivati fin lì per ricordaglielo e far tornare a galla tutti i fantasmi sepolti. Ci sarà molto sangue e la famiglia ne sarà coinvolta, perché il malaffare, anzi il male, ha contaminato inesorabilmente anche la vita e gli affetti di Rosario, e lui pagherà un prezzo molto alto.
Un noir, quello di Cupellini, stranamente poco in sintonia con il cinema italiano, che questo genere non lo ha mai trafficato davvero (i film di mafia sono ed erano tutt’altra cosa, più simili al western e all’action). Tanto che il film degli ultimi anni che più gli assomiglia è l’australiano Animal Kingdom, con quelle storie infami e le rese dei conti malavitose all’interno della famiglia. Però Una vita tranquilla, anche se inconsueto nei nostri panorami filmici, o proprio per quello, è un bel risultato. Chi mai avrebbe pensato che il regista dell’interessante però maledettamente carino Lezioni di cioccolato si sarebbe riciclato in un film notturno, sporco e cupo come questo? Il regista azzecca molte cose, a partire dal clima di minaccia che ci comunica fin dalla prima inquadratura e che corrode ogni cosa, ogni corpo, ogni sguardo di quella esistenza solo apparentemente perfetta. Non sappiamo cosa succederà, ma sappiamo che succederà, e questo è lo stile a suggerircelo. Rosario e i suoi due giovani compaesani sono raccontati e visti senza lo sguardo complice e l’ammicco di tanto cinema italiano, anche se di antimafia e anticamorra, ma con la distanza di un osservatore esterno (difatti risulta che Cupellini sia nato nel 1973 in provincia di Padova, profondo Nordest).
La storia non è nuovissima. Quello del criminale che si è ripulito, rifatto una vita e che viene ritrascinato nel gorgo del passato è anzi un topos del noir. Tanto per stare solo in tempi abbastanza recenti, vengono in mente The American con George Clooney e History of Violence di Cronenberg con Viggo Mortensen (davvero molto simile, questo, a Una vita tranquilla). Però è interessante che un esponente della nuova commedia carina all’italiana come Cupellini abbia svoltato e si sia diretto stavolta verso sentieri più fangosi e meno illuminati, scelta che denota un certo coraggio. La confezione non è per nulla local ma decisamente globale, con stile e linguaggio da cinema universalmente esportabile. Sceneggiatura ben scritta, perfino con qualche tentativo di dialogo e cazzeggio alla Tarantino (il discorso sullo ‘sputazzo’), anche se ogni tanto si apre qualche vistosa falla nel plot (assurdo ad esempio che Eduardo, uno dei due ragazzotti, dica a Rosario che ha scoperto la sua vera identità, un errore che a Hollywood verrebbe sottolineato con la matita rossa). Poi c’è Toni Servillo. Che eduardeggia e servilleggia più che mai, però di bravura indiscutibile, e quell’espressione che cambia lentamente e le rughe che si distendono e si ricreano ridisegnandogli la faccia, mente la camera sta fissa su di lui e non lo molla per quasi mezzo minuto, bene, quello è un momento da grandissimo attore. Mi chiedo se quel milione e quattrocentomila euro che il film ha incassato finora in Italia, risultato altamente rispettabile per un prodotto così anomalo, non siano in gran parte merito suo. Capita sempre più spesso di sentire “andiamo a vederlo questo film che c’è Servillo”, e non è detto che sia un male.
Ultima annotazione: la camorra al cinema ha preso da un pezzo il posto della mafia, sempre meno sexy da questo punto di vista. La fascinazione schermica ormai la esercitano tutta i criminali organizzati tra Vesuvio e Casertano, da Luna rossa di Capuano a questo Una vita tranquilla passando per l’ovvio Gomorra.
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